Il particolare momento storico impone di fermarsi e riflettere su quali potranno essere gli effetti della Mifid II sul business model degli operatori italiani. L’impressione è che la mole di adempimenti che la nuova disciplina impone, unita alla persistente attesa della versione definitiva, stia togliendo il fiato non lasciando spazio ad un’analisi dei possibili benefici che il nuovo ordinamento potrà generare. Gli intermediari appaiono, in questa rincorsa all’adeguamento, costretti tra la pressione regolamentare e la continua necessità di incrementare margini facendo leva sul proprio business.
La Mifid II impatta sui modelli operativi e le procedure interne degli intermediari per garantire maggiore trasparenza ai mercati e ai clienti. Rispetto alla Mifid, la Mifid II estende lo spettro degli ambiti di intervento regolamentare, introduce nuove regole di tutela e specifica elementi che nell’attuazione della Mifid erano rimessi in maniera più ampia alla discrezionalità e alle decisioni degli intermediari. In quest’ottica la Mifid II costringe sì, gli intermediari all’adozione di alcune scelte strategiche, ma li obbliga a un intenso lavoro di revisione o adozione di policy e strategie con il rischio che sia facile concludere che la salvaguardia degli investitori, anche in questo caso, co- m’era stato nella Mifid, passi per un innalzamento degli oneri formali senza incidere sugli aspetti sostanziali.
Le decisioni di natura strategica appaiono riconducibili, volendo generalizzare, soprattutto alla product governance (revisione/conferma della gamma rispetto al target market), alla ricerca (decisione di addebitarla ai clienti o di internalizzarla) e alla consulenza (indipendente, non indipendente o modello misto). In tutti questi casi la Mifid II rischia di qualificarsi per gli intermediari come una minaccia, anziché come un’opportunità.
L’applicazione concreta della product governance potrebbe generare il convincimento, soprattutto ove il carico operativo e l’assunzione di responsabilità dovesse assumere profili di criticità maggiori dei benefici, che sia opportuno restringere la gamma di offerta per il cliente eventualmente ampliandola solo con prodotti captive. Parimenti, le disposizioni per l’addebito della ricerca ai clienti, che più di altri temi stanno impegnando gli intermediari per definirne una applicazione pratica che possa dirsi conforme, potrebbe esporre gli intermediari ad alti rischi di non conformità, soprattutto in assenza delle tante richieste di chiarimento che l’industria sta ponendo alle autorità di vigilanza.
La distinzione tra consulenza indipendente e non indipendente, diversamente dagli aspetti precedenti, potrebbe rappresentare un’opportunità di rafforzamento di alcuni modelli di business, seppur a fronte degli interventi di separazione organizzativa che sono richiesti dalla Mifid II qualora si decida di prestare il servizio in entrambe le modalità. In conclusione, la nuova disciplina non sembra portare concrete opportunità per gli intermediari e in alcuni casi tale circostanza rischia di depauperare l’interesse dello stesso investitore che le nuove norme intendono proteggere. C’è da valutare, quale forse unico possibile beneficio, se il processo di adeguamento consentirà agli intermediari di rivedere, aggiustare e, ove possibile, semplificare, i propri processi così come sono venuti a definirsi nel tempo. Si tratta di cogliere nella Mifid II il pretesto per fare chiarezza sul proprio business, consapevoli che il processo di regolamentazione da qualche anno in corso non sembra volersi assestare e porrà sempre più in capo agli operatori l’onere di gestire con particolare attenzione il rischio di conformità cercando di destreggiarsi, al meglio, in un contesto dove norme e regolamenti tendono a moltiplicarsi ampliando, purtroppo, il novero di possibili contenziosi con i clienti. Una modalità discutibile di proteggerne gli interessi.
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